Compagni di Viaggio - Alda Merini
“Il grande premio dell’uomo è la sua vita ….C’è sempre qualcosa per cui ringraziare la vita”(5).
A mio avviso, queste parole della poetessa Alda Merini racchiudono l’essenza del suo modo di porsi rispetto alla vita, del suo modo di essere vita.
Per lei, il poeta è uomo di pensiero, un filosofo, un osservatore della sua epoca capace di cogliere se stesso in rapporto agli altri.
Già a 15 anni inizia a scrivere le sue prime poesie, alcune delle quali pubblicate da Giacinto Spagnoletti nella “Antologia della poesia italiana 1909 – 1949”. Nel 1953 esce la prima pubblicazione di Alda Meri-ni:“La presenza di Orfeo”, che viene accolta molto favorevolmente dalla critica. Nel 1958 Salvatore Quasimodo, con cui la poetessa aveva un importante rapporto di amicizia e di lavoro, pubblica alcuni suoi versi in “Poesia italiana del ‘900”. Dal 1965 al 1979 è il periodo del silenzio poetico, silenzio che coincide con l’esperienza del doloroso internamento manicomiale. Nel tempo, quel dolore si trasforma in forza creatrice, forza poetica e forza narrativa. Nel 1984 riprendono le pubblicazioni dei suoi componimenti poetici, nel 1986 esce il suo ca-polavoro in prosa: “L’altra verità. Diario di una diversa”, testo da cui ho tratto alcune parti che qui pro-pongo al lettore. Questi anni rappresentano un peri-odo molto fecondo per Alda Merini che aumenta le proprie pubblicazioni, partecipa ad interventi pubbli-ci e riprende i contatti con le amicizie di un tempo.
Nel 1994 inizia un importante sodalizio artistico con Giovanni Nuti la cui musica accompagna i versi della poetessa. Insieme hanno inciso alcuni album e condivi-so il palco di spettacoli teatrali e televisivi. In questi stessi anni, Alda Merini riceve diversi premi letterari: nel 1993 il premio Librex-Guggenheim “Eugenio Mon-tale” per la Poesia; nel 1996 il Premio Viareggio, nel 1997 il Premio Procida – Elsa Morante, nel 1999 il Pre-mio della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Setto-re Poesia. Più volte candidata al Premio Nobel: dappri-ma nel 1996 quando l’Accadémie Française la propone per il Nobel alla Letteratura e poi nel 2001 quando il Pen Club Italiano la propone al Nobel per la Poesia; nel 2002 riceve l’Ambrogino d’oro dal Comune di Mila-no;nel 2007 riceve dall’Università di Messina la Laurea Magistrale honoris causa in “Teorie della Comunicazio-ne e dei Linguaggi”.
Alda Merini si è spenta il 1° novembre 2009 all’Ospedale San Paolo di Milano.
Ho ritenuto che il modo migliore per parlare di Alda Merini fosse quello di dar voce alle sue stesse parole. Scrive di sé l’Autrice:
“Sono nata a Milano il 21 marzo 1931, a casa mia, in via Mangone, a Porta Genova: era una zona nuova ai tempi, di mezze persone, alcune un po’ eleganti altre no. Poi la mia casa è stata distrutta dalle bombe …. Abbiamo perso tutto. Siamo scappati sul primo carro bestiame che abbiamo trovato. Tutti ammassati. Sia-mo approdati a Vercelli ….. A Vercelli ci ha ospitato una zia … Non andavo a scuola, come facevo ad andarci? Andavo invece a mondare il riso… c’era la guerra. Sta-vo in casa e aiutavo la mamma, andavo all’oratorio….Sono tornata a Milano quando è finita la guerra”(5)
Nel 1953, all’età di 18 anni si sposa con Ettore Carniti. Dice di lui“Un bell’uomo. Ho avuto quattro figlie da lui. Andavamo a mangiare la minestra da mia madre per-ché lui non aveva ancora un lavoro. Poi abbiamo preso una panetteria in via Lipari, non è che proprio faceva-mo il pane, era solo una rivenditoria. Mi chiamavano la fornaretta. Ho avuto la mia prima bambina nel 1955, Emanuela, poi nel 1958 è nata anche Flavia. Avevo 36 anni quando è nata la mia ultima figlia, Simona, e pri-ma ancora era arrivata Barbara.”(5).
“Ho avuto un uomo che ho amato molto che mi ha rinchiuso, l’ho amato ugualmente, più che amato, l’ho perdonato”(5)
Le figlie raccontano il loro padre come“un uomo ge-loso, un gran lavoratore, ma un uomo poco incline a capire e a condividere la passione per la poesia di nostra madre. Ettore era un uomo semplice, concre-to, indifferente agli interessi culturali di nostra ma-dre. Era una scrittrice lei, già dall’età di 15 anni scri-veva le sue poesie, e anche se vivevamo in una condi-zione di povertà e pativamo spesso la fame, nostra madre perseguiva i suoi sogni …. una notte nostro padre era rientrato a casa dopo essere andato in gi-ro con gli amici e aver speso tutti i soldi, quella notte nostra madre gli scaraventò contro una sedia facen-dolo finire all’ospedale. Soffriva molto lei, non di ge-losia, soffriva perché veniva picchiata quando lui era ubriaco, ma lei lo amava e si crogiolava nell’illusione che lui cambiasse. Questa grande sofferenza non l’abbandonerà più …” (5)
Nel suo Diario Alda Merini racconta così l’incontro con l’ospedale psichiatrico: “Quando venni ricovera-ta per la prima volta in manicomio ero poco più di una bambina, avevo sì due figlie e qualche esperien-za alle spalle, ma il mio animo era rimasto semplice, pulito sempre in attesa che qualche cosa di bello si configurasse al mio orizzonte; del resto ero poeta e trascorrevo il mio tempo tra le cure delle mie figliole e il dare ripetizione a qualche alunno, e molti ne ave-vo che venivano a scuola e rallegravano la mia casa con la loro presenza e le loro grida gioiose. Insomma ero una sposa e una madre felice, anche se talvolta davo segni di stanchezza e mi si intorpidiva la mente. Provai a parlare di queste cose a mio marito, ma lui non fece cenno di comprenderle e così il mio esauri-mento si aggravò, e morendo mia madre, alla quale io tenevo sommamente, le cose andarono di male in peggio tanto che un giorno, esasperata dall’immenso lavoro e dalla continua povertà e poi, chissà, in preda ai fumi del male, diedi in escande-scenze e mio marito non trovò di meglio che chiama-re un’ambulanza, non prevedendo certo che mi a-vrebbero portata in manicomio. Ma allora le leggi erano precise e stava di fatto che ancora nel 1965 la donna era soggetta all’uomo e che l’uomo poteva prendere delle decisioni per ciò che riguardava il suo avvenire. Fui quindi internata a mia insaputa, e io nemmeno sapevo dell’esistenza degli ospedali psi-chiatrici perché non li avevo mai veduti, ma quando mi ci trovai nel mezzo credo che impazzii sul momen-to stesso in quanto mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto molta fatica ad uscire. Improvvisamente, come nelle favole, tutti i pa- renti scomparvero. La sera vennero abbassate le sbarre di protezione e si produsse un caos infernale. Dai miei visceri partì un urlo lancinante, una invoca-zione spasmodica diretta ai miei figli e mi misi a urlare e a calciare con tutta la forza che avevo dentro, con il risultato che fui legata e martellata di iniezioni calmanti.
Ma, non era forse la mia una ribellione umana? Non chiedevo io di entrare nel mondo che mi appartene-va? Perché quella ribellione fu scambiata per un atto di insubordinazione? Un po’ l’effetto delle medicine e un po’ per il grave shock che avevo subito, rimasi in istato di coma per tre giorni e avvertivo solo qualche voce, ma la paura era scomparsa e mi sentivo rasse-gnata alla morte. Dopo qualche giorno mio marito venne a prendermi, ma io non volli seguirlo. Avevo imparato a riconoscere in lui un nemico e poi ero così debole e confusa che a casa non avrei potuto far nul-la. E quella dissero che era stata una mia seconda scelta, scelta che pagai con dieci anni di coercitiva punizione….. Dopo un po’ di tempo cominciai ad ac-cettare quell’ambiente come buono, non mi rendevo conto e andavo incontro a quello stra-no fenomeno che gli psichiatri chiamano “ospedalizzazione” per cui rifiuti il mondo esterno e cresci unicamente in un mondo estraneo a te e a tutto il resto del mondo; mi ero fatta un concetto molto dolce e cioè che io fossi un fiore e che crescessi in un’aiuola deserta ….. Ciò che mi risulta
incompresibile è come fossi capitata in quel luogo, e che odio mai avesse potuto ispirare mio marito a chiudermi in una casa di cura. (3)
Il periodo degli internamenti dura fino al 1979, quando Alda Merini fa definitivo ritorno a casa.Nel 1983 rimane vedova; due anni dopo sposa il poeta Michele Pierrie si trasferisce a Taranto dove vi rima-ne per circa quattro anni. Sono anni difficili durante i quali avrà modo di conoscere l’ospedale psichiatrico di Taranto. <![CDATA[<br/>]]>
Nel 1986 rientra definitivamente a Milano, sulle rive del Naviglio tanto amato, dove riprende a scrivere edinizia a raccontare la sua esperienza.
“Se fossi completamente guarita, mi ergerei certa-mente a giudice, e condannerei senza misura. Ma molti, tutti, metterebbero in forte dubbio la mia sin-cerità in quanto malata. E allora ho fatto un libro, e vi ho anche cacciato dentro la poesia, perché i nostri aguzzini vedano che in manicomio è ben difficile uccidere lo spirito iniziale, lo spirito dell’infanzia, che non è né potrà mai essere corrotto da alcuno”. (3)
Nel “post scriptum due” del suo Diario scrive:“Con questo volume Alda Merini mette a disposizione de-gli altri le sue esperienze, per un proficuo esito della psicoanalisi e per un’emancipazione umanistica della psichiatria. ….. Forse non scriverò nulla di nuovo, for-se questi sono luoghi triti, ma sono convinta, serena-mente convinta, che se non fosse stato per la psicoa-nalisi, io in quel luogo orrendo ci sarei morta”.(3)
Nel periodo dell’internamento al Paolo Pini di Mila-no, il rapporto con il Dottor Enzo Gabrici si rivelerà particolarmente significativo e salvifico. Così scrive la poetessa:“Il dottor G era fermamente convinto che io non fossi malata di mente, ma che da bambina avessi subito un violentissimo trauma, e che quello continuasse a darmi fastidio, aggravato, poi, dalla severità del manicomio. Era, questo dottore, uno che cercava in ogni modo di spiegarmi in simboli; anzi di chiarire i simboli che passavano o si mimetizzavano nella mia mente .Un giorno, senza che io gli avessi detto mai nulla del mio scrivere, mi aperse il suo stu-dio e mi fece una sorpresa.
“Vedi” disse, “quella cosa là? E’ una macchina per scrivere. E’ per te per quando avrai voglia di dire le cose tue”. Io rimasi imbarazzata e confusa. Quando avevo scritto il mio nome e chi ero, lo guardai sbalor-dita. Ma lui, con fare molto paterno, incalzò: “vai, vai, scrivi”. Allora mi misi silenziosamente alla scriva-nia e cominciai: “Rivedo le tue lettere d’amore..” Il dottor G. Si avvicinò a me e dolcemente mi sussurrò in un orecchio: “ Questa poesia è vecchia. Ne voglio delle nuove”. E gradatamente, giorno per giorno, ricominciarono a fiorirmi i versi della memoria, fin-ché ripresi in pieno la mia attività poetica. Questo lavoro di recupero durò circa due anni….. Ma molto mi aiutò il dottor G, che con la sua terapia della non violenza dava all’ammalato la sensazione di poter essere ancora vivo, o di poter almeno accedere a quella specie di autenticità del vivere cui, di fatto, il malato solitamente aspira. ….. D’altra parte il Diario è liberamente tratto dalla cartella clinica del dottore Enzo Gabrici, che raccoglie ancora le mie poesie scritte in manicomio. Mi tenne con sé visto che i miei parenti mi avevano mandato al diavolo e mi rieducò alla letteratura, l’unica fonte di vita alla quale potevo aggrapparmi per non morire. Ci vollero anni di amore, di presenze continue, ci volle una lunga degenza che ormai la chiusura del manicomio rende impossibile. (3)
Più volte nelle sue interviste Alda Merini sottolinea che è la forza dell’amore a far cambiare le cose.
“Io canto l’amore, … forse perché non l’ho avuto lo canto, tanto l’ho desiderato” (5).
“In manicomio ero sola, per lungo tempo non parlai, convinta della mia innocenza. Ma poi scoprii che i pazzi avevano un nome, un cuore, un senso dell’amore e imparai, sì, proprio lì dentro, imparai ad amare i miei simili. E tutti dividevamo il nostro pane l’una con l’altra, con affettuosa condiscendenza, e il nostro divenne un desco famigliare. E qualcuna, la sera, arrivava a rimboccarmi le coperte e mi baciava sui corti capelli. E poi, fuori, questo bacio non l’ho preso più da nessuno, perché ero guarita. Ma con il marchio manicomiale”. (3) Ma è proprio l’esperienza del manicomio che le ha rivelato la grande potenza della vita.“Io la vita l’ho goduta tutta, a dispetto di quello che vanno dicendo sul manicomio. Io la vita l’ho goduta perché mi piace anche l’inferno della vita e la vita è spesso un inferno…. per me la vita è stata bella perché l’ho pagata cara”(5)
Io non ho bisogno di denaro
Io non ho bisogno di denaro
ho bisogno di sentimenti
di parole
di parole scelte sapientemente
di fiori detti pensieri
di rose dette presenze
di sogni che abitino gli alberi
di canzoni che facciano danzare le statue
di stelle che mormorino all'orecchio degli amanti.
Ho bisogno di poesia
questa magia che brucia la pesantezza delle parole
che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.
Bibliografia
Merini A., Aforismi e magie, BUR-Contemporanea, Casarile (MI), 2014
Merini A., Il ladro Giuseppe, Libri Scheiwiller, Milano, 1999
Merini A., L’altra verità. Diario di una diversa, BUR, Bergamo, 2008
Merini A., Magnificat, Frassinelli, Piacenza, 2002
Viviana Nacchi
Kore Informa Febbraio 2016